Fulcro della storia, soprattutto economica, di Lercara Friddi è la scoperta dei giacimenti di zolfo, unici nella provincia di Palermo.
I lavoratori del sottosuolo, picconieri adulti o carusi, sostenevano ritmi disumani caratterizzati da turni di lavoro a ciclo continuo di otto ore rinchiusi in spazi angusti, male illuminati e scarsamente arieggiati, dove l'umido, le alte temperature e le impurità nuocevano alla loro salute.
L'estrazione del minerale veniva fatta manualmente dai picconieri e il materiale veniva trasportato a spalla. Dal 1800 in poi per il trasporto venne utilizzato un ascensore che non solo conduceva nei meandri della grotta i minatori ma portava in superficie lo zolfo che veniva poi depositato in carrelli e condotto alla lavorazione.
Il minerale sulfureo veniva fuso per eliminarne le impurità e colato in stampi. Il proseguire del sapere nella tecnica di lavorazione dello zolfo portò a un cambiamento delle stesse. In origine veniva usato un tipo di forno chiamato calcarone che liberava, tuttavia, esalazioni dannose non solo per le culture, ma soprattutto per la salute dei lavoratori. Metodo, questo, ben presto proibito e sostituito dalla macchina Duvand che tuttavia non riuscì a eliminare del tutto l'anidride solforosa. Nello specifico la tecnica del calcarone fu messa a punto nel 1851 e fu caratterizzata dal netto aumento del rendimento. La costruzione del calcarone richiedeva poche cautele: bastava individuare una porzione di terreno ben riparata dai venti, poco distante dagli ingressi di pozzi e calate, possibilmente non in corrispondenza del sottosuolo. Su un’area di forma circolare con una certa pendenza si tracciava il recinto, la parete esterna che individuava forma e caratteristiche di questa sorta di grande forno senza copertura. In corrispondenza del punto più basso, si trovava la “morte”, ossia il luogo di comunicazione tra l’interno del forno e l’esterno durante tutte le fasi di fusione. La costruzione doveva essere ben eseguita per non permettere all’aria di entrare e provocare involontariamente l’accensione dello zolfo.
Il principio di base è quello di una fusione alimentata, fatta eccezione per una breve fase iniziale, dalla combustione dello zolfo. L’operaio addetto alla gestione del calcarone, “arditore”, provvedeva all’accensione con frasche impregnate di zolfo che venivano inserite in punti caratteristici del calcarone stesso, dove iniziava una lenta fusione. Questa poteva durate anche 20-30 giorni. Seguiva quindi la seconda fase, quella della produzione, quando, forato con un ferro rovente lo sportello della morte, iniziava a fuoriuscire il minerale liquido, riversandosi in forme a tronco di piramide con una capacità di 75 Kg. Il contenuto delle forme, solidificato in “pani” (o “balate” in termine dialettale), andava accatastato in attesa di essere trasportato nel luogo di smercio o di imbarco.