In tutta la Sicilia i lavoratori delle miniere hanno tratti comuni, tutti detentori di conoscenze che hanno fatto la storia della produzione mineraria dell'isola e tutti accomunati dalle stesse condizioni di vita e lavoro assolutamente difficili e precarie.
Di queste condizioni di vita si sono occupati studiosi e letterati siciliani che hanno reso le loro opere manifesti di denuncia di quelle condizioni così al limite del rispetto della vita umana.
Angelo Petix, originario di Montedoro, in provincia di Caltanissetta, ha decantato nelle sue opere gli zolfatari della sua terra. Denunciava, in "La miniera occupata", che gli zolfatari erano uomini comuni, che soffrivano e pensavano, ma che venivano trattati come bestie da soma e schiavi. Come bestia da soma veniva trattato lu carusu, ragazzo che, per contribuire al sostentamento della famiglia, iniziava a lavorare in tenera età nelle miniere. Questi poteva trasportare pesi enormi e per lunghissimi tragitti tra il caldo soffocante delle miniere e il freddo gelido delle zone esterne. Erano inoltre vittime costanti di infortuni, provocati non solo dal lavoro ma anche dai picconieri a cui erano affidati.
Il nisseno Calogero Bonavia ne "I servi dell'uomo" li definiva servi che camminavano nella notte, che non compravano il pane ma lo scavavano sotto terra.
I picconieri sono, per antonomasia, i lavoratori delle miniere, ai quali spettava il compito principale di estrarre il materiale roccioso. Lavoravano in condizioni estreme: nudi, con i piedi dentro l'acqua, a temperature elevatissime e in ambienti soffocanti, soggetti a numerose malattie.
Infine il nisseno drammaturgo e giornalista Pier Maria Rosso di San Secondo nella sua opera teatrale "La bella addormentata" descrive, come in un dipinto realista, il ritratto dello zolfataro dalla bocca serrata e dall'occhio pungente, del quale, continua, non si vede neanche un pelo di barba. Nell'opera il lavoratore della miniera viene colto e descritto durante il suo tempo libero. La sua descrizione vuole quasi rinnegare la violenza e la tristezza della sua condizione di lavoro dentro quegli angusti labirinti.
Fuori dalle miniere pochi sono i momenti di svago dei minatori. Malgrado il diniego da parte degli stessi lavoratori il canto può essere annoverato come una delle pratiche di svago che adottavano gli stessi per distaccarsi dalle loro condizioni di vita.
Il frammento che segue descrive proprio la negazione nei confronti di quel lavoro così disumano:
"Ch'avianu a cantari ddà intra? Ca si scinnia cu lu cori tantu!" "A la pirrera nun si cantava. Si bastimiava!"
Un esempio di canto di lavoro degli zolfatari viene riportato da Alberto Favara nel “Corpus di musiche popolari siciliane“ Questo canto può essere attribuito alle zone di Villarosa e Caltanissetta e si evidenzia in esso una peculiarità rispetto agli altri canti di mestiere: alla fine del canto è riportata l’annotazione «Alla fine di ogni frase tutti fanno forza con un suono gutturale staccando il minerale».
Il canto in questione è formato da quattro versi:
Ca sutta 'nta stu 'nfernu puvireddi
nui semu cunnanati ‘a tirannia
a manu di li lupi su’ l’agneddi
ciancitini cianciti, mamma mia
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