A Termini Imerese, città termale alle pendici del Monte S. Calogero, si svolge il più antico Carnevale di Sicilia che richiama ogni anno un numero elevato di persone.
La nascita di questa tradizione probabilmente è legata allo stanziamento di un folto gruppo di napoletani, fuggiti da Palermo, che si rifugiarono a Termini Imerese in seguito ad una sommossa scoppiata nel 1848 per la cacciata dei Borbone. I napulitì, così vengono chiamati, si narra che abitassero nella zona oggi chiamata “Porta Palermo”, dove tutt’ora si trova una piccola via nominata Napolitì, era una borgata fuori dalle porte della città dove risiedeva soprattutto gente povera. Grazie alla loro proverbiale allegrezza e simpatia non ci misero molto ad ambientarsi e, proprio in occasione del periodo carnevalesco, diedero vita ad una pubblica festa improvvisata, che vide la partecipazione di un gruppo di contadini e pescatori del posto, si trattava di una festa che inizialmente coinvolgeva unicamente il quartiere e che solo in un secondo momento coinvolse l’intera città. Questo u cuntu che si tramanda e narra l’inizio dei festeggiamenti del Carnevale termitano.
Quello di Termini Imerese è considerato il più antico Carnevale di Sicilia in quanto si fa riferimento a quattro ricevute di pagamento “con una quota mensile di lire una”, rilasciate rispettivamente nei mesi di gennaio-febbraio, marzo, aprile e maggio dell’anno 1876, dalla “Società del Carnovale” al termitano Giuseppe Patiri (1846-1917) paletnologo, studioso di storia locale e di tradizioni popolari, nonché socio dell'associazione. Questi importanti documenti furono ritrovati nel 1997 da Giuseppe Longo, che stava compiendo una laboriosa ricerca storica sul Carnevale termitano, tra le innumerevoli testimonianze di storia locale raccolte in casa del noto collezionista Francesco La Mantia. Inoltre il timbro presente sulle ricevute raffigura una maschera dalle fattezze abbastanza simili a quelle del Pulcinella napoletano. E’ quindi ipotizzabile che detta associazione facesse diretto riferimento al Carnevale locale ispirato dai napoletani, curandone probabilmente la promozione e l’organizzazione. Certamente, già nel 1876, la manifestazione aveva raggiunto grande popolarità, costituendo un appuntamento fisso tra le feste della città e necessitando della presenza di un vero e proprio comitato organizzatore, che operò, con alterne vicende, almeno sino al 1911.
La “Società del Carnovale” inoltre, con i ricavati del 1906, finanziò la realizzazione del grande salone dormitorio dell’Ospizio di Mendicità “Umberto I”. La lapide posta sul prospetto di quest’ex edificio riporta la seguente iscrizione: “COL CONTRIBUTO DELLA CARITA’ CITTADINA IL COMITATO DEL CARNEVALE NE AMPLIO’ I LOCALI DAL 1904 AL 1907 MOSTRANDO COME ACCOPPIAR SI POSSA/ALLA BENEFICENZA IL DILETTO”.
Il periodo carnevalesco iniziava subito dopo l’Epifania (Ddoppu li tri re Carnalivari è!) ed era annunziato dai bambini che, nei quartieri popolari, suonando la brogna cantavano “Ih eh carnalivari è”. La festa poi di protraeva per un mese, ed era scandita dai cosiddetti “quattru joviri” (i quattro giovedì): iòviri di li cummari (il giovedì delle comari), iòviri di li parenti (il giovedì dei parenti), iòviri zzuppiddu (il giovedì del diavolo), e si concludeva con iòviri rassu (il giovedì grasso); in tale occasione, a pranzo, ci si abbuffava di maccaruna cu sucu ‘ntà majdda, pasta fatta in casa con i busi dalle mani delle nonne e delle mamme che per farla asciugare, la stendevano sulle canne.
Lo storico termitano Giuseppe Navarra raccontava che sul finire del XIX secolo, ad opera dei fratelli De Giorgi, nacquero le due maschere in cartapesta de u nannu e a nanna, simbolo e principale attrazione del Carnevale termitano. La festa vera e propria infatti esplodeva la domenica con l'arrivo del nanno ca nanna che venivano da lontano, la gente infatti si concentrava al porto o alla stazione per accogliere i due arzilli vecchietti che dispensavano confetti e coriandoli con allegria e spensieratezza. Il clou della festa era costituito dal rogo di un fantoccio (u nannu), che veniva portato in corteo appeso ad una canna e seguito da comparse piangenti (i ripitanti); la morte simbolica del fantoccio veniva preceduta dalla lettura di rime e mottetti (u tistamentu) che prendevano in giro il potere costituito.
L'attesa prima della sfilata dei carri e dell'esplosione della festa in piazza, si viveva intensamente in famiglia con incontri serali, all'insegna dell'allegria, soprattutto nei giorni di sabato quando si organizzavano feste e ci si divertiva al suono di una fisarmonica, di una chitarra, di un mandolino, di un friscalettu, di un mariuolu, consumando dolci tipici come chiacchere, taralli, catalani, mustazzoli, cannoli, e rosolio fatto in casa. Infatti nobili e borghesi riccamente mascherati, percorrevano le strade della città a bordo di carrozze, per recarsi nei tanti palazzi dove si svolgevano balli in maschera. Al loro passaggio assisteva il popolino festante, inconsapevole testimone di quelli che possiamo considerare le prime sfilate di carri che proprio in ricordo di quel periodo vengono detti i carruzzati.
Le strada inoltre pullulavano di mascherati che, secondo l'usanza, bussavano alla porta da dove giungeva un suono: l'accompagnatore si presentava facendosi riconoscere, si chiedeva un ballo, si andava via per bussare ad un'altra porta e così per buona parte della notte.